Ciao Whitney… anima fragile e grintosa.

Si è spenta alle 3:23 del pomeriggio, ora locale, presso quella silenziosa camera del Beverly Hilton Hotel della patria dei divi e degli angeli… Los Angeles.

Whitney Houston non ce l’ha fatta.

A soli 48 anni, la dea della musica Soul e R&B, che per lunghi anni ha fatto emozionare, sognare, innamorare con la sua struggente voce carica di pathos e spirito, debordando fino a quel raffinato Pop che solo l’amico Michael Jackson aveva osato spingere fino a quell’Olimpo Bianco che, lode a Dio, li ha accolti e consacrati a leggenda, ha smesso di cantare.

E come l’amico indifeso e segnato fino alla sconfitta [Jackson è scomparso il 25 Giugno 2009], anche Whitney ha ceduto.

La guerra dei mondi, quelli interiori e tirati a lucido per far felici fans e discografici, si è trasformata in un conflitto ancora più grande e minaccioso, devastante, letale nel suo farsi strada divorando la delicata Houston da dentro, in quella strage di anime (ancora più difficile da affrontare) che si è consumata nella mente e nel cuore della fragile cantante.

Whitney ha smesso di cantare ma, solo dopo qualche ora dal suo decesso, è avvenuta la tragica scoperta per mano di un bodyguard inconsapevole della macabra scena a cui prendere parte.

Ma questa volta non è il set dell’ennesimo commovente videoclip, le anime soul virtuosamente evocate dalla Houston se ne sono andate, messe in fila una per una da quel padrone della fabbrica illusoria e conveniente, la droga, che l’artista da anni mandava avanti con parsimoniosa disperazione. Anime licenziate, mandate via, spiazzate, nel triste ricordo di una vita da favola, si, ma una favola triste che nessuno, dopo l’analoga cronistoria dell’amico Michael, avrebbe voluto rileggere.

E il bodyguard che tanto ci ha fatto commuovere in quella lontana pellicola del 1992, questa volta non l’ ha salvata… ripiegato nella triste accettazione del vero, l’ ha tardivamente trovata.

Le cronache ci dicono di una fine che sa di criptico déjà vu

Appoggiata delicatamente sulle fragranze della sua vasca da bagno, senza segni di violenza ne tracce di droghe tra le intime materie dei suoi spazi, il caso ci riapre il sipario su quel cupo capitolo che fu la morte di Morrison (Jim) nel mai dimenticato 1971.

Ci risiamo allora, la storia si ripete.

Morrison, Jackson, Houston… il destino dell’eroe si compie per l’ennesima volta con il sacrificio del soldato, vissuto come superstite di una sanguinaria guerra che soltanto Whitney ha combattutto… un buio, quello della droga e della depressione, dove soltanto lei è stata capace di camminare sperando di non cadere.

Per anni Whtiney è stata la Dea indiscussa della musica, la prima tra le sue colleghe del sistema capace di dare forza e dignità all’alta tradizione afroamericana, sdoganata da Jackson, addolcita da lei.

Ma i 6 grammy vinti, i 22 American Music Awards, i successi mondiali, gli oltre centottanta milioni di dischi venduti, i film che l’hanno ben voluta nell’Hollywood più patinata, tutto ciò non è bastato.

Il male di Whitney è andato oltre, le onde della tempesta interiore sono state più forti di quell’ondata di successo che ha reso il suo talento leggenda, il suo nome un mito.

Entra ed esce dalle cliniche per disintossicarsi dall’abuso eccessivo di droghe, si allontana sempre di più dall’aspetto più intimo del suo dono, dai suoi spiriti, il soul… le emozioni in musica diventano un pallido ma persistente ricordo soggiogato da emozioni più forti, ma dolorose e artificiali che, col passare degli anni, cambiano letteralmente musica.

Come Jackson, si lecca atroci ferite che hanno il nome del padre e della famiglia, ora di sangue ora acquisita; come il Re del Pop si rifugia nel silenzio, nell’incomunicabilità, in quel naufragio di dolore dove, già si sa, non si salverà nessuno.

E l’attesa del tragico epilogo diventa una lunga discesa verso la più ingiusta autolesione.

La Houston ci ha lasciati, come un eroina romantica partita all’attacco verso una crociata già persa in partenza, perchè il vero grande nemico è stato anche quello più difficile da sconfiggere, è stato in lei. Ma eroina lo è proprio per questo: Whitney ha lottato la sua grande guerra con e contro se stessa, contro le droghe, la depressione e le violenze dell’anima, sapendo che probabilmente non l’avrebbe mai vinta da sola… ma rimane tuttavia la più grande battaglia, quella della vita, che lei ha vissuto e, spero, abbia creduto fino in fondo di poter vincere.

Ci rimane un’epoca di emozioni, lacrime e baci costruiti sulla potenza della sua voce. L’amara consapevolezza che un’altra anima fragile, l’ennesima, è annegata in un mare di dolore più forte di lei.

Ci rimane il silenzio, il rispetto, la coscienza che non è mai tutto oro quel che luccica, che i soldi non fanno la felicità, che una grande festa la si inscena solo per copre infiniti silenzi, che si fa tanto per gli altri per paura di badare a se stessi. Si, ci rimangono mille frasi fatte e luoghi comuni che in questo caso assumono un senso ma lasciano anche il tempo che trovano.

Ci rimane sempre Whitney… la sua grinta, la sua potenza, le note, le luci, le emozioni e i grandi sorrisi dei suoi avi, impressi nel suo radioso, seppur incompreso, meraviglioso viso.

I Will Always Love You… con questa promessa di amore eterno è entrata nel cuore e nei ricordi di tutto il mondo, per sempre allora sarà Whitney e per sempre la ricorderemo con amore… con le lucide e sentite preghiere affinchè, in quel mare calmo che per noi vivi è il cielo, lei possa continuare a cantare al fianco del suo grande amico Michael, per sempre, quell’amore troppo grande e graffiante che, come con Jackson, ce l’ha portata via.

Ciao Whitney!

© Giuseppe  Mazzola

7 thoughts on “Ciao Whitney… anima fragile e grintosa.

  1. Nelle tue parole c’è una vita e tanta verità.
    Mi sono commosso nella lettura, sembrano le parole sofferte di un caro amico distrutto dal dolore e da una realtà difficile da digerire.
    Mi dispiace molto per Whitney Houston, nessuno al mondo merita ferite nell’anima così aperte da ucciderti, ma questo è il prezzo che pagano i buoni, i sensibili, indifesi perché il mondo è dei cinici e degli egoisti.

    Giuseppe tu dovresti scrivere per un pubblico più vasto, il tuo modo di raccontare i fatti e di esprimerli è una tempesta di emozioni che trascina chi legge nella poesia del cuore. Raramente mi sono emozionato nel leggere un articolo, con te capita quasi sempre.

    Hai un dono, vivi su di te il mondo, lo percepisco, come quando un attore piange sul palco i drammi del personaggio… ti auguro col cuore di salire verso quei mezzi che ti permettano di comunicare a un pubblico più vasto, abbiamo tutti bisogno di emozioni condivise.

    Come l’emozione che unisce tutti nel ricordare Whitney, come dici tu, un’anima fragile e grintosa.

    Silvio

  2. Grazie Silvio… scrivere di Whitney è un pò come fare i conti con la parte più fragile e indifesa di me.

    A malincuore ho trovato facilità nel capirla, avrei preferito fraintendere la sua felicità, piuttosto che assorbirne il dolore.

    Forse sembrerò retorico… a ho il cuore piegato dinanzi al dolore di chi, per sensibilità… non ce la fa.

    G.

  3. Ho pianto leggendo il tuo articolo, per la triste verità che racconti, per il triste quanto ingiusto epilogo di Michel e Whitney.
    Nelle tue parole ho letto solo emozione, commozione, dolore…nulla di superficiale.
    E’ la superficialità che logora queste anime, l’insensibilità nei confronti della Vita e dei doni che un essere umano può fare al mondo.
    Abbiamo bisogno di più gente col tuo cuore Giuseppe.

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